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CHIAROSCURO di Ottavio Di Stefano
mer 17 giu, 2020

 

Fra pochi giorni pubblicheremo un nostro sondaggio su come i medici bresciani hanno vissuto la vicenda COVID-19 e scoprirete con quanta intensità e partecipazione.

Non vi anticipo alcun dato.

Voglio proporvi un quesito.

COVID-19 ci ha riportato indietro nel tempo di due, tre generazioni?
Siamo ritornati a quanto descriveva nel suo libro "The Youngest Science" Lewis Thomas (1983), com'era essere un tirocinante medico al Boston City Hospital nell'anno pre-penicillina del 1937. Era un periodo in cui la medicina era economica e molto inefficace. Se tu ti ritrovavi in ospedale ti avrebbe fatto bene solo perché ti offriva un po' di calore, un po' di cibo, un riparo e forse l'attenzione premurosa di un'infermiera. Medici e medicine non facevano alcuna differenza. Ciò non sembrava impedire ai medici di essere freneticamente impegnati in tutti i loro giorni. Quello che stavano cercando di fare era capire se si poteva arrivare ad una delle diagnosi per cui si poteva fare qualcosa.” (1)

Ci siamo improvvisamente dovuti cimentare con un malattia sconosciuta.

La differenza con quei tempi è la tecnologia che oggi ci consente di “comperare tempo”, come afferma un grande rianimatore. "In terapia intensiva non curiamo la malattia, ma manteniamo vivi i pazienti. Noi compriamo tempo per cui le terapie o le nostre stesse difese naturali possano prendere il sopravvento sul virus".

In poco tempo abbiamo imparato molto. Il ruolo della risposta immunitaria, la tempesta citochinica, e che non era una malattia d’organo ma di sistema. Se si esclude l’efficacia dell’eparina nel prevenire e contrastare la spiccata tendenza tromboembolica, permangono rilevanti incertezze terapeutiche, dagli antivirali al plasma iperimmune e all’idrossiclorochina, con poche e contradditorie evidenze in letteratura ed in contrasto con il riscontro empirico della pratica quotidiana.

Insomma siamo tornati indietro nel tempo in un dramma dai toni scuri che ha rivelato la fragilità dell’organizzazione. Organizzazione da ripensare, non solo per un’eventuale nuova ondata, ma per quello che COVID-19 ha dimostrato. Le varie istituzioni hanno affrontato una situazione, certamente devastante, in ordine sparso. Venivamo già da una crisi profonda. In tutti i paesi ci si poneva il problema della sostenibilità dei costi della salute. La complessità attuale della scienza applicata alla medicina ha un costo non paragonabile a soli pochi anni fa.

Abbiamo vissuto e viviamo un quadro a tinte fosche, scure. Eppure se lo guardate bene c’è una luce sulla tela, intensa se pur concentrata.

Tutti noi abbiamo riscoperto il lavoro spalla a spalla e spesso l’appoggiarsi sulla spalla dell’altro o dell’altra nei momenti di drammatica difficoltà. Di fronte a tanto dolore, a tanta morte abbiamo sperimentato, quasi improvvisamente, la forza dello stare insieme, del parlare e confrontarci fra noi a tutti i livelli, in ospedale e sul territorio. Insomma, ancora quasi improvvisamente, abbiamo avuto coscienza vera di un momento storico da contrastare, certo con lo studio e la competenza individuali, ma soprattutto affrontando uniti “l’orribile morbo”. L’ortopedico ha riscoperto il fonendo, il medico ed il pediatra di famiglia hanno scoperto quanto sia importante e utile il confronto.

Ci siamo sentiti tutti investiti, senza retorica, di una mission collettiva che ha risvegliato, anche in chi credeva di averlo perso, il senso per cui abbiamo scelto, poco o tanto tempo fa, di fare questo lavoro.

Ed è un nuovo ritrovarsi oggi, avviandoci verso una normalità, speriamo, non provvisoria. L’ortopedico ha ripreso ad occuparsi di ossa ed il medico di famiglia ha riaperto a tutti l’ambulatorio, ma gli incontri casuali hanno un tenore diverso. Ci salutiamo volentieri, senza parole, ripensando al grande evento condiviso.

La casta, la classe medica. Ho sempre avuto completa disistima di queste proposizioni.

COVID-19 ha fatto scoprire o riscoprire a tutti noi che siamo una comunità che condivide semplici valori. “Curare spesso, guarire qualche volta, consolare sempre”.

Ed oggi, di fronte alla complessità della nostra medicina, questo detto antico si realizza se si ha il senso di essere, come lo siamo stati nelle settimane terribili dell’epidemia, una comunità.

Questo è un patrimonio “fatale” per la nostra professione.

Ottavio Di Stefano
16 giugno 2020

 

(1) Atul Gawande TED2012 How do we heal medicine?

 

immagine: William Turner, Pescatori in mare, 1796, Tate Britain, Londra