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GLI ANELLI DELLA CATENA di Ottavio Di Stefano
lun 31 ago, 2020


Ho trascorso tutta la mia vita professionale negli Spedali Civili di Brescia.

Medici di grande valore mi hanno insegnato il mestiere.

Allora la storia clinica e la semeiotica erano gli strumenti base del nostro lavoro, integrati da indagini che ripensandoci oggi sembrano quasi primitive. Potevamo richiedere una broncografia, una stratigrafia polmonare, uno pneumoencefalo o un retropneumoperitoneo. Il beta bloccante era farmaco controindicato nello scompenso di cuore. Sono passati 4-5 decenni e tutto è cambiato ed è giusto che sia così.

Spero di non cadere in patetici ricordi di gioventù raccontandovi di quando giravo nei vari reparti, o meglio divisioni come si chiamavano allora ed ancora si chiamano, con in tasca le richieste di consulenza internistica. Percepivo negli stanzoni, nonostante i tanti letti con poca  privacy e poco confort per i malati, una qualità diffusa.

La frase che spesso pronunciava uno dei miei più amati maestri era “Ricordati che l’ospedale non è dei medici, degli infermieri, degli amministratori…l’ospedale è dei malati”.

Insomma, sentivi, davvero, di lavorare in un posto dove al centro c’era il malato. Centralità che è patrimonio del tutto attuale e da preservare.

In molti di noi, oso dire quasi tutti, cresceva un senso di appartenenza agli “Spedali” che non si mitigava nel tempo ed ancora oggi, da vecchio pensionato, mi sento pienamente uno del “Civile”. E, sempre rischiando una deriva retorica, provo per questa istituzione profonda gratitudine ed affezione.

Il “mio” ospedale, come tutti, è organizzato da anni in Dipartimenti, ma, a mio parere, prevale ancora la logica dei reparti, delle divisioni.

Da anni in letteratura vi è un’ampia discussione su come dovrebbe essere l’ospedale del futuro (es.: Future Hospital Programme Royal College of Physicians).  

E parlando, sempre e solo per esempio, del paziente medico prevalente, il paziente cronico, anziano e polipatologico, si trovano proposte di riorganizzazione basate su nuove figure mediche, quali l’hospitalist, che altro non è che il nostro internista-geriatra. Nell’ambito di un grande dipartimento medico dovrà coordinare (mi trattengo dal dire con visione olistica) la conduzione clinica del malato avvalendosi delle competenze specialistiche. Ed è sempre lui, l’hospitalist, che dovrà intrattenere solide, condivise, relazioni con il territorio basate su strumenti informatici ad alta efficienza ed omogenei. Il limite delle mie competenze non mi permette di esprimermi su soluzioni che riguardano altri ambiti, ma si trovano altrettante analisi in letteratura.

Come integrare tutto questo con il modello per intensità di cura?

Perché sollevo queste questioni ora?

È di pochi giorni fa la notizia di importanti stanziamenti per la spedalità bresciana. Sono soldi santi e benedetti. Il Civile è, per dimensioni, in prima fila, ma tutti gli ospedali, giustamente, sono coinvolti. Grandi ristrutturazioni edilizie che porranno rilevanti problemi organizzativi, dovendosi mantenere la continuità dell’attività clinica. Si pensi solo alla demolizione del “satellite” ed alla sua ricostruzione.

Ed ancora più di attualità il bando di gara per la costruzione del Centro COVID (l’ormai famosa scala 4) che si appella al contributo solidale dei privati (enti e fondazioni). Leggo sulla stampa che fra le motivazioni di questa scelta vi è lo snellimento della burocrazia e quindi una più rapida realizzazione.

“Non importa di che colore è il gatto basta che prenda i topi”.

Però….


La costruzione di un nuovo ospedale o la sua profonda ristrutturazione non possono essere semplicemente ascritte al mero intervento edilizio perché, generalmente, la scelta di costruire (o addirittura di non costruire) un ospedale è destinata ad influire fortemente sul modello organizzativo dei servizi sanitari (A. Signorini Corriere della Sera 8 agosto 2020)” Come non si po’ essere d’accordo con questo passaggio estratto da  un’ampia  e competente analisi storica e di architettura ospedaliera.

Ritengo, quindi, prodromica alla ristrutturazione dell’ospedale (degli ospedali) le scelte, che sopra ho genericamente rappresentato con esempi, del modello assistenziale. Per altro da modulare nell’ambito delle specificità della rete ospedaliera. Solo per capirci: ruolo e relazioni delle varie strutture ed i livelli di assistenza, considerando, purtroppo, la prevedibile non breve convivenza con la pandemia

Un vero piano Marshall per gli ospedali e ripeto sono soldi santi e benedetti.

Ed allora porgo un’altra questione che deve andare in parallelo perché non si perpetui una severa disfunzione di sistema.

A quando un piano Marshall per il territorio?  

Se è arduo, difficile, ristrutturare e cambiare l’ospedale quanto dovrebbe essere “rivoluzionario” l’intervento sul territorio che viene da anni di incertezze, di varie riforme sulla carta e mai realizzate, e di fondo da un depauperamento vero di risorse umane e strutturali, esito di un cronico definanziamento.

E quasi monotono riproporre le analisi, le proposte di questi anni. Mi limito ad alcune essenziali osservazioni.

Da anni, o meglio da decenni, la letteratura è concorde su questo dato. Dal buon funzionamento delle cure primarie dipende la sostenibilità (e quindi la sopravvivenza!) dei sistemi sanitari ed in specie di quelli solidali ed universali, di cui il nostro Sistema Sanitario Nazionale è uno dei pochi rimasti nel panorama internazionale.

E, rischiando ancora di annoiarvi ripetendomi, questo nostro SSN, certamente da riformare in modo radicale nell’organizzazione, rimane del tutto moderno nei principi costitutivi. La più grande opera pubblica della storia della Repubblica.

La rivoluzione deve partire da un elemento di fondo che questi mesi inimmaginabili hanno dimostrato.

Attoniti di fronte alla nostra stessa impotenza con le severe ripercussioni psicologiche che un recente nostro sondaggio (a cura di Angelo Bianchetti) ha documentato, abbiamo, quasi improvvisamente, capito che uno dei mali della nostra stagione era la solitudine, la nostra solitudine, la solitudine dello” schermo blu”. Non quella obbligata di Robinson Crusoe, ma “La solitudine che invece ci prende e che più ci fa soffrire è quella sorta di apnea che si prova nel sentirsi, sì soli, ma in mezzo a tanta gente” (1). E in quei giorni duri, sofferti, abbiamo scoperto che possiamo parlarci, come facevamo di più una volta, quando ci chiamavano, con termini del tutto impropri e che detesto profondamente, “classe medica o casta”.

COVID 19 ci ha fatto riscoprire che siamo una comunità e, quando la pandemia si esaurirà, come sempre nella storia, per via naturale o per la disponibilità diffusa del vaccino, dovremo preservare questo patrimonio. Oggi lo viviamo in una nuova relazione amicale fra noi medici, con gli infermieri, con gli ausiliari e tutti quelli che hanno vissuto insieme il tempo della “morte diffusa”.

Sono cadute molte” barriere” tribali”.

Il lavoro d’equipe, se pure da riformare, è insito nelle attività ospedaliere. Diversa la realtà territoriale.

La medicina di famiglia, fra gli altri, ha il compito di gestire il malato cronico polipatolgico anche a media intensità assistenziale. Sappiamo tutti che questo prevede (e ce lo siamo detti migliaia di volte) integrazione vera con l’ospedale, con il sociale, con i comuni….

Per fare tutto questo occorrono ambienti, tecnologie, risorse umane, professionali ed amministrative, sistemi informatici ad alta efficienza… etc.etc.

Ma torno al punto di svolta, che personalmente ritengo essenziale. Il vero cambiamento di mentalità, oserei dire di vita, si realizza abbattendo la solitudine.

In questi anni sul territorio abbiamo assistito allo sviluppo e consolidamento di esempi virtuosi di medicina di gruppo dei medici e dei pediatri di famiglia, con rilevante miglioramento della risposta assistenziale, ma va, credo onestamente, riconosciuto che altri esempi sono stati e sono più formali che sostanziali.

E allora perché non pensare ad aggregazioni strutturate di medici coordinate da un MMG o PDF esperto, e volutamente mi ripeto, con ambienti idonei, infermieri, personale amministrativo, tecnologia, orari adeguati, integrazione con il sociale, ruolo ed interazione fra l’infermiere di famiglia e la medicina generale e sistemi informatici che consentano una vera comunicazione strutturata con l’ospedale.

Un sistema insomma che superi le proprie rigidità e l’anacronistica e non funzionale separazione fra territorio ed ospedale.

Una risposta diffusa e flessibile alla richiesta di salute che consideri i vari livelli di patologia, limitando anche gli accessi impropri alle strutture di emergenza, “stranamente” azzerati nelle settimane più intense della pandemia.

Covid 19 è qui fra noi. I focolai sono aumentati ed è prevalente la trasmissione fra i giovani come si poteva prevedere nell’estate post lockdown. Finora siamo riusciti a contenere i focolai con lo screening dei tamponi, a condizione che questi vengano eseguiti in modo diffuso e precoce e nel contempo mirato e soprattutto che la risposta sia altrettanto rapida.

Settembre le scuole e poi l’autunno con l’influenza. Sfide da affrontare con misure adeguate e per quanto ci riguarda un piano vaccinale che consenta una vaccinazione antinfluenzale di “massa”. Una campagna dai bambini alle fasce di età sopra i 60 anni, agli operatori della salute. Tutto questo prevede un’organizzazione davvero importante e strutturata che non può prescindere dal coinvolgimento dei comuni e di tante altre realtà locali. Dobbiamo impiantare in pochi mesi (settimane?) un sistema certamente complesso, ma le finalità sono di elevato valore: discriminare l’origine delle varie sindromi febbrili specie nell’infanzia, riduzione delle complicanze batteriche negli anziani e quindi la pressione sugli ospedali, le possibili interazioni fra sindrome influenzale e Covid e quant’altro.

Siamo già in ritardo?

Aspettiamo tutti il vaccino contro SARCOV 2, che realisticamente non sarà disponibile a breve, ma se i governi riusciranno a renderlo universalmente disponibile, senza alcuna discriminazione, determinerà la fine della pandemia. Di fronte ad un problema di salute planetaria sono incredibili, insensate e risibili, se non ci fosse da piangere, alcune esternazioni “no vax” che francamente non riesco neanche a commentare.

Intanto sempre e comunque mascherine, distanziamento fisico ed igiene delle mani.

Può sembrare una reiterazione quasi ossessiva ribadire che ogni cambiamento del SSN ha prospettive di successo solo se si coinvolge nella progettazione chi nel sistema vi lavora (2) ed ancora di più per il contrasto a COVID 19. Infatti, abbiamo vissuto tutte le sue drammatiche interazioni non solo sulla salute, ma sulla società e sull’economia. Si pensi solo all'ulteriore acuirsi delle diseguaglianze.

Insomma, da un dibattito che coinvolga ospedale, territorio, comuni, strutture e rappresentanze sociali, potrebbero nascere un progetto condiviso con buone possibilità davvero di successo che altro non vuol dire che buona qualità delle cure.

Il nostro Sistema Sanitario Nazionale si basa su tanti anelli di una catena ma….“Una catena è forte quanto il suo anello più debole” Christiaan Barnard.

 

Ottavio Di Stefano

31 agosto 2020

 

1.In “Alla fonte delle parole” Mondadori 2019
2.Changing how we think about healthcare improvement Jeffrey Braithwaite - BMJ 2018;361: k2014 J