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Notizie - Notizie dalla Regione e da altri Enti/Associazioni/Fondazioni

SIPPS Newsletter dalla letteratura. Articolo "Una nuova modalità di valutazione della batteriuria per fare diagnosi di infezione delle vie urinarie"
lun 16 ott, 2023

Di seguito l'articolo pervenuto dalla Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS)

Shaikh N, Lee S, Krumbeck JA, Kurs-Lasky M.
Una nuova modalità di valutazione della batteriuria per fare diagnosi di infezione delle vie urinarie
Pediatrics. 2023;152:e2023061931.

Una diagnosi certa di infezione delle vie urinarie (IVU), essenziale perché possa essere impostata una terapia efficace, si basa sul risultato dell’urinocoltura, valutato in modo diverso a seconda delle modalità con cui viene raccolta l’urina e, quindi, in funzione del rischio di contaminazione batterica del prelievo. Poiché le raccolte mediante flusso intermedio o sacchetto sono quelle più a rischio di contaminazione, l’esame viene considerato positivo e, quindi, indicativo di IVU, se la coltura dà esito alla crescita di un singolo batterio in quantità ≥ 100.000 germi formanti colonie (CFU)/mL. Il valore che indica IVU scende a ≥ 50.000 CFU/mL quando l’urina è prelevata con catetere, un mezzo a minor rischio di contaminazione. Infine, qualsiasi crescita, anche minima, basta a giustificare la diagnosi di IVU in caso di utilizzo della puntura sovrapubica, una metodica a bassissimo o nullo rischio di contaminazione. In realtà, tutti questi parametri sono abbastanza grossolani anche perché non esiste un riferimento certo con cui confrontarsi. Molti studi hanno dimostrato che i valori considerati indicativi di IVU sono spesso fallaci, con soggetti con coltura negativa ma con segni clinici e radiologici di pielonefrite e con soggetti diagnosticati con IVU che non hanno, però, nessuna manifestazione clinica o di laboratorio di infezione. Per tentare di inquadrare meglio il problema e vedere se fosse possibile avere dei riferimenti più precisi evitando errori potenzialmente significativi, Shaikh e collaboratori hanno pensato di usare una metodica di microbiologia molecolare come riferimento per una diagnosi certa e verificare se, a fronte di questa, i valori dati dall’urinocoltura tradizionale potevano essere meglio precisati. In pratica, questi autori hanno utilizzato, per evidenziare eventuali batteri nelle urine e fare, quindi, diagnosi di IVU, il sequenziamento del gene dell'RNA ribosomiale 16S, che è ben conservato in tutte le specie batteriche e, sulla base delle sue caratteristiche,  permette di stabilire quali batteri siano presenti nelle urine, inclusi quelli difficili da coltivare in laboratorio. Inoltre, la differenziazione dei ceppi a livello molecolare consente la discriminazione tra batteri fenotipicamente identici e, quindi, dà una idea molto più precisa rispetto alla classica coltura. I risultati ottenuti sono stati confrontati con quelli della coltura classica e si è cercato di individuare quale concentrazione minimi di batteri rilevati in coltura corrispondesse alla diagnosi di IVU fatta con la metodica molecolare. Sono stati considerati positive le urinocolture nelle quali almeno l’80% dei batteri identificati con la metodica molecolare fossero indicativi di una singola specie batterica. Nello studio sono stati arruolati bambini di età compresa tra 1 mese e 3 anni che presentavano sintomi di IVU (almeno la febbre) nei quali la raccolta urinaria è stata fatta con il cateterismo.  I dati raccolti hanno dimostrato che, usando un cutoff di 10 000 CFU/mL, la sensibilità e la specificità della coltura classica erano, rispettivamente, del 98% (95% CI: 93%–100%) e del 99% (95% CI: 97%–100%). Innalzando il cutoff a 50.000 CFU/mL la sensibilità scendeva all’80% (95% CI: 68%–93%) senza variazione della specificità. L’ulteriore aumento del limite di selezione a 100.000 CFU/mLl portava ad una ulteriore caduta della sensibilità che si limitava al 70%. Ciò sembra indicare che possono essere considerate vere IVU tutte le infezioni per le quali la coltura tradizionale evidenzia una carica batterica ≥ 10.000 CFU/mL mentre elevando il limite a 50.000 o 100.000 CFU/mL si introducono gravi errori di valutazione che portano a misconoscere il 20% e il 30% dei casi. Gli autori concludono per l’utilizzo di ≥ 10.000 CFU/mL come nuovo standard di riferimento, riconoscendo che, abbassando il limite della carica batterica per porre diagnosi di IVU, si corre il rischio di considerare vere IVU forme che non lo sono e sono, invece, solo espressione di un grossolano inquinamento durante la raccolta urinaria. Ma secondo gli autori fare qualche diagnosi falsa e, quindi, trattare con antibiotici qualche bambino che non ne ha bisogno è meno importante che perdere qualche caso di IVU, potenzialmente a rischio di gravi danni renali.

Il lavoro è certamente interessante, perché per la prima volta, il discorso della numerosità batterica necessaria a porre diagnosi di IVU viene fatto utilizzando un mezzo diverso da quello della classica coltura, per definizione più rapido e preciso. I risultati vanno, però, analizzati nel dettaglio e visti non solo alla luce della metodologia seguita per eseguire lo studio ma anche in relazione a quanto avviene nella pratica di tutti i giorni. Non si può non notare, infatti, che il campione di sospette IVU sul quale è stata condotta la ricerca è un campione ben definito non sempre corrispondente a quello che si trova di fronte il pediatra, specie quello di territorio. È, infatti, circoscritto a bambini piccoli, con sintomi in qualche modo associabili a IVU e nel quale l’urina è stata raccolta con il cateterismo. È questa una metodica che, se fatta correttamente, ha un rischio relativamente basso di inquinamento, e che viene, di regola, eseguita solo in ambiente ospedaliero e, anche in questo caso, è poco praticata nella quotidianità, almeno in prima battuta. Non è certo, quindi, la condizione ottimale che dia risultati trasferibili in ciò che si verifica tutti i giorni. Chi si è occupato della diagnosi di IVU sa perfettamente che spesso, e quasi sempre nei lattanti, si utilizza la raccolta con il sacchetto, una metodica fortemente a rischio di inquinamento. Ritenere positive le urine con ≥ 10.000 CFU/mL sembra molto pericoloso perché farebbe aumentare di molto i falsi positivi con il forte rischio che l’affermazione che trattare qualche caso in più del necessario rispetto a perdere qualche IVU non sia assolutamente più valida. In conclusione, se proprio si vuole trarre qualche conclusione operativa da questo lavoro, si può dire che scendere ad una positività di ≥ 10.000 CFU/mL per considerare presente una IVU vale solo se si utilizzano mezzi a basso rischio di inquinamento come il cateterismo o la puntura sovrapubica in bambini che hanno almeno la febbre come sintomo clinico della malattia. Ogni altra valutazione appare sbagliata. Nei casi di raccolta urinaria fatta con le metodiche più in uso, sembrerebbe logico mantenere i vecchi standard di riferimento.

Prof. Nicola Principi - Direttore Responsabile RIPPS
                                                      
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